Il libro di Valery Ant. Claude:
Voyages en Corse, à l'île de'Elbe et en Sardaigne,
venne edito in due volumi a Parigi nel 1837.
Alla Sardegna è dedicato l'intero secondo volume.

 

Viene qui proposta la traduzione dal francese di Maria Grazia Longhi nella edizione ILISSO, Nùoro 1996.

 


CAPITOLO XCV

Bessude- Padre Carboni

Nonostante le difficoltà e i pericoli, quasi, della strada, andai da Thiesi al piccolo e antico villaggio di Bessude, distante quattro miglia, situato in una valle in seno al monte Pelao e che ha un po' più di 600 abitanti. Negli ultimi ventidue anni Bessude era stato il luogo di ritiro di padre Francesco Carboni, scrittore e poeta troppo poco conosciuto, dimenticato nelle nostre biografie e nei loro supplementi, gesuita, amico e corrispondente dei più illustri letterati italiani dell'ultimo secolo, quali Angelo Fabroni, i padri Roberti e Cordara, Gerolamo Ferri, Zampieri (1), il barone Vernazza, e autore dell'elegante poema sull'insalubrità della Sardegna (De Sardoa intemperie) che malgrado la stranezza, la tristezza del soggetto, mi aveva incantato (2). Non credo d'uscire d'argomento dando qui la bella descrizione del muflone, animale peculiare della Corsica e della Sardegna, descrizione più animata e non meno esatta di quella di Buffon:

«Marmoreum candet pectus, lita tergora villo
Sparguntur rufo, stant recta oblongaque colla:
Subnigrae in multis maculae cernuntur, at illae
Exiguae: splendent oculi variantque colores,
Adverso quot sole trahit Thaumantias iris:
Pulcher frontis honos, exilia crura, pedumque
Mobilitas, celeres vincat quae fulminis alas;
Et, ramosa illis ni desint cornua, quando.
Ipsis arietum more in gyrum acta leguntur,
Cervos credideris; moles quibus ipsa, colorque.
Nec nisi turmatim densis discurrere silvis,
Praesertim tenuit coelo si decidat imber,
Aut latis videas agiles colludere campis:
Interea si quis teretes concentus ad aures
Perveniat, capita attollunt, cursum illo sistunt,
Attonitique sonos et lenia murmura captant» (3).

Carboni, questo gesuita, questo professore d'eloquenza latina nell'Università di Cagliari, benché cittadino d'un governo nemico, amava la nostra patria; era entusiasta della nostra gloria e aveva composto sulle imprese e la grandezza di Napoleone un poema eroico in cinque o sei canti che bruciò poco prima di morire perché, dopo la persecuzione del papa, la sua coscienza era confusa per gli elogi che aveva prodigato al suo eroe come restauratore e protettore della religione. I versi seguenti, molto duri, che non ricordano affatto la maniera virgiliana del Carboni e che si potrebbero ritenere composti a Parigi nel 1810 da un verseggiatore dell'Impero che per caso conoscesse il latino, daranno un'idea dell'esaltazione del buon padre:

«Induperatorum domitorem inopina parantem
Indeploratis regibus excidia,
Cui sunque ausonides iamdudum sceptra merenti,
Francigenae ante pedes et posuere sua,
Miretur quis vis lstro dare jura, daturum
Mox Tanai, ac Thamesi moxque Borysthenidi:
Tu ne mireris qui nosti, Hiacinte, minorem
Uno semideum Naupoleona Jove» (4).

Aveva rivolto questi versi all'arcivescovo di Torino, Della Torre, ex arcivescovo di Sassari, suo amico prelato d'altissimo merito, la cui adulazione verso Napoleone fu accentuata da una sorta di costanza e di fedeltà, tanto che non esitò affatto nel 1814, quando il re di Sardegna era appena sbarcato a Genova, a lanciare l'anatema contro «quei cosacchi che avevano osato porre le mani sull'unto del Signore»; parole che avevano vivamente irritato il sovrano legittimo e avrebbero causato al Della Torre una pessima accoglienza, se non fosse opportunamente morto.

Il Carboni, sempre pronto ad ammirare le gesta eroiche, non era stato meno ispirato dal braccio sinistro rimasto a Nelson, sul quale compose, dopo la battaglia d'Abukir, questi versi che sarebbero belli a scuola:

«Loevam jura mari dantem, Niloque tremendam
Sequana captivis non vereatur aquis?
Haec erit, haec domitis regum domitoribus una,
Dextera qui sese conferat ipsa Jovis» (5).

Le opinioni antifeudali del cavalier Angioi furono intensamente condivise da padre Carboni, come dimostra un componimento allora molto vantato che egli volle dedicargli. Aveva inoltre stigmatizzato in versi eloquenti l'odioso governo della corte durante la sua residenza in Sardegna:

«Arma furens fremit arma Sacer! Macopsisa ministras
Ni dederit, servas mox dabit aegra manus.
Spes est quisque sibi, spes falli nescia: Thyrsus
Sequanae et Eridano nuntiet, ac Thamesi.
Plumbeus hinc auster meritas aquilonis ad iras
Ponere perfidiae murmura discet iners.
Quique suis modo perstrepuit ventosior alis
Se sua praetrepido condet in antra pede.
Aurum quid plumbo intersit, quid mascula prosit
Virtus, quid Phrygia, quidve agitare dolos?
Grex bipedum sero sapiens dehinc noverit exlex
Nec posthac Regis Regalus instar erit.
Ominor! armato ne quis contendat inermis
Heros Semideo, Semideusve Deo» (6).

I sentimenti del Carboni contribuirono a farlo cadere in disgrazia e quest'uomo che aveva rifiutato d'essere segretario dei brevi di Pio VII, del quale era stato amico in Italia prima della sua elevazione, anziché vivere onorevolmente a Roma (7), morì nel 1817, triste, malato, all'età di 71 anni, nell'oscuro villaggio di Bessude. La casetta, dove abitò con le due affezionate sorelle e dove fui ricevuto, fu per sua volontà donata alla parrocchia: io la trovai infatti occupata dal vicario. Lasciò la sua biblioteca, costituita dal fiore della latinità, ai Gesuiti di Sassari; sperava nel loro ristabilimento e in previsione di ciò volle cominciare colI'organizzare loro la biblioteca.

Un bel componimento dell'amico e corrispondente del Carboni, lo Zampieri, descrive il volto del poeta di Bessude: si tratta di una risposta al ritratto che quest'ultimo gli aveva mandato:

«Ne te notum uno mihi nomine forte putaris,
Francisce, o doctae gloria Sardiniae,
Est animo perspecta meo tua dulcis imago
Splendens in lepidis candida carminibus:
Amplae en frontis honos, vultus en forma rotunda
Os velut arridens, fulgure pleni oculi.
Quid mi aliam effigiem? Quam misti, diruet aetas,
Quae immortali animo infixa perire nequit» (8).

Ho visto nella montagna il piccolo orto di padre Carboni l'Ortalto, piantato a pioppi, alberi da frutta e viti. È là che egli andava tutti i giorni a comporre, a passeggiare, a bere l'acqua eccellente del ruscello che scorre sotto i pioppi. Aveva finito, all'ombra di un castagno, la sua Napoleonide, che componeva con un trasporto temperato, ogni tanto, da fresche libagioni alla fonte la sua Ippocrene.

Aveva allora come segretario un suo giovane allievo e compatriota di Bessude, l'abate Marongiu Nurra, oggi vicario generale di Sassari ed editore delle sue opere scelte, pubblicate a Cagliari nel 1834, così come una raccolta delle lettere così interessanti di San Gregorio sulla Sardegna (Torino, 1825, in 8°).

La parrocchia di San Martino di Bessude fu costruita nel 1620: sono apprezzati un quadro del Santo che dona il suo mantello, e due statue della Vergine e del Redentore. Per l'esposizione del Santo Sacramento la chiesa era affollata di donne del paese in costume di gala giallo; il rosso scarlatto è l'abito della domenica. Non senza emozione trovai nella chiesa la tomba di padre Carboni e il suo epitaffio, di cui egli stesso compose la prima parte (9).

Ogni giorno, prima di andare al suo caro Ortalto, il Carboni diceva messa a San Martino; la pronunciava da provetto latinista e mi è stato detto che sembrava a volte un po' troppo lunga all'impazienza sarda, abituata a non dilungarsi troppo nelle funzioni.

Carboni, grande poeta sardo, è stato degnamente cantato da un suo compatriota, Stanislao Caboni, che gli ha dedicato un sonetto superbo.

Il territorio di Bessude, molto salubre, ha più di ottanta fonti che non si prosciugano mai: proprio per la freschezza dell'aria e dell'acqua il Carboni decise di sceglierlo come luogo di ritiro e forse questo amico tanto appassionato dei classici era stato attratto, inoltre, dalle tracce dell'antichità che il paese offre. Infatti, tra le rovine del villaggio di Ibilis, ora abbandonato, e della sua vecchia chiesa, a circa mezzo miglio da Bessude, i contadini scoprono, come a Terranova, belle corniole e monete corrose dalla ruggine, molte delle quali sono state riconosciute come puniche.



Note

1 Un vecchio amico del Carboni mi ha raccontato la prova alla quale egli sottopose l'amicizia dello Zampieri, durante la singolare visita che gli fece a Firenze. Carboni, che aveva avuto con Zampieri una lunga corrispondenza prima di conoscerlo, si era fatto annunciare come un ecclesiastico sardo. Durante la conversazione si permise di parlare con non troppo riguardo della sua persona e delle sue opere, ma fu così vivamente commosso dal modo in cui subito fu esaltato da Zampieri e dall'elogio che il più il dotto imolese fece del talento e del carattere del Carboni che non esitò più a rivelargli che il Carboni era proprio lui. (vai al testo)

2. Il poema De Sardoa intemperie uscì a Sassari nel 1772; Carboni aveva 26 anni (vedi Appendice n. 9). Le altre opere principali sono: De Coraliis (Cagliari, 1780), De extrema Christi Coena (vedi Appendice n. 10), De Corde Jesu (Cagliari, 1784, vedi Appendice n. 11) e soprattutto gli ammirevoli versi sull'Eucaristia (vedi Appendice n. 12), inediti fino alla pubblicazione a Cagliari delle opere scelte di Carboni, nel 1834. Come oratore e scrittore italiano il Carboni è parso sostenuto e ricercato. Tra i suoi discorsi ce ne sono due sulla letteratura sarda e uno sulla salute dei letterati. Aveva anche composto molte odi strappate alla sua cortesia per celebrare vestizioni, nozze o concorsi accademici, scritti che permarranno senza conseguenza alcuna per la sua gloria come latinista. (vai al testo)

3. «Il petto ha il candore del marmo; macchie d'un pelo fulvo gli coprono il dorso; il collo è lungo e sta dritto. Talvolta è leggermente picchiettato di nero. Gli occhi brillano e il colore varia con la stessa mobilita dell'arcobaleno, con il riflesso dei raggi del sole. La fronte è bella e nobile; le zampe sono fini e superano agili la velocità del fulmine; e se le corna, anziché curvarsi come quelle dell'ariete, fossero ramificate, lo si prenderebbe per un cervo; è uguale il portamento, uguale il colore. Si vedono i mufloni vagare in branchi nelle fitte foreste, soprattutto quando cade una pioggia leggera, oppure misurarsi nella pianura nel loro gioioso scorrazzare. Se appena avvertono un qualche strumento, si fermano, levano la testa con sorpresa, attenti al minimo suono, al più debole mormorio». A questi particolari poetici si può aggiungere che la carne di muflone è delicatissima e che la pelle è utilizzata dai montanari sardi per farne buone giacche aderenti che proteggono lo stomaco dal freddo. È nel Monte Gennargentu, una delle più alte montagne della catena centrale dell'Isola, che si trovano e si cacciano i gruppi più numerosi di mufloni, e non si trovano meno facilmente che ai tempi di Plinio e di Strabone. (vai al testo)

4. «Lascia che altri ammirino questo vincitore dei monarchi, che prepara improvvisi disastri ai prìncipi che ancora non ha colpito, lui al quale I'Italia e la Francia hanno rimesso il loro scettro che detta legge al Danubio, e ne detterà presto al Tànai, al Tamigi e al Boristene, tu lo conosci, Giacinto, non ti sorprenda che Napoleone, questo semidio, non ceda che a Giove». (vai al testo)

5. «La Senna nelle sue onde prigioniere non avrà forse paura di quella mano sinistra che comanda al mare e fa tremare il Nilo? Sarà a quella mano sinistra, che sola schiaccerà i vincitori dei re, che si paragonerà la destra di Giove». (vai al testo)

6. «Sassari, nel furore che l'agita, corre alle armi; come sua alleata o, se rifiuta come sua vassalla, Macomer asseconderà i suoi sforzi. Per infallibile istinto è in se stesso che l'uomo spera; che il Tirso l'insegni al Po, alla Senna al Tamigi. La giusta collera dell'Aquilone impedirà il respiro perfido dei pesante ed indolente Austro; appena l'aria risuonerà del rumore delle sue ali superbe, la paura lo farà precipitare nel suo antro. Cos'hanno in comune l'oro e il piombo? Il maschio coraggio, la vigliaccheria, la mala fede, tutto è inutile. I popoli senza leggi si istruiranno a questa tardiva lezione e il miserabile reuccio non affetterà più maniere da gran principe. Io lo preannuncio: ma che l'eroe disarmato non si misuri contro il semidio coperto della sua armatura, né costui contro una divinità superiore». (vai al testo)

7. Il canonico Raimondo Valle riporta nelle note del suo Tempio del Destino che, a questo proposito, il Carboni fece le seguenti osservazioni: «Nelle lettere latine si scrive il nome del segretario e che figura fò io vedendo un nome, forse conosciuto da loro, se debbano dire: questo sa il latino, ma non sa politica? Fareste anche voi l'istesso». (vai al testo)

8. «O Francesco, onore della dotta Sardegna non pensare che io ti conosca solo di nome; il mio spirito vede la tua candida e dolce immagine brillare tra i versi pieni di grazia. Ecco la maestà della tua ampia fronte, la forma rotonda del viso, il sorriso delle tue labbra, il fuoco del tuo sguardo! Perché quest'altro ritratto? Questo che mi invii, il tempo lo distruggerà; esso non può nulla contro l'immagine impressa in un'anima immortale». (vai al testo)

9. «Hic lacet / Aonidum Cultor / Carbonius / Auras Infectas / Patrio / Propulit Ante Solo / Et Primus / Quae Coralii Natura / Quis Usus Praecinuit / Nitido Carmine Maeonio / Extremam Christi Caenam / Mox Ante Supremam / Divino Et lesu Pectus / Amore Sui / Hocce Marongia Grata Domus / Majora Merenti / Aeternum En Marmor Flens Dedit / Usque Memor / Anno MDCCCXX Obiit MDCCCXVll Dec. Kal. Maii». (vai al testo)